IL TUO “DIVERSITY TRAINING”  RIDUCE I BIAS, O LI RAFFORZA ?

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I Diversity Equity & Inclusion Training fecero la loro comparsa nel mondo aziendale negli anni '80, e si diffusero negli anni '90,  quando divenne chiaro che molti ambienti erano “fallati”, e che la non accettazione equa delle diversità di genere, età, razza, nazionalità, disabilità, orientamento sessuale, educazione, religione etc produceva un clima di insicurezza e demotivazione niente affatto utile al portare risultati,  innovazione e crescita.  I DEI Training includono raccomandazioni per i processi di selezione del personale, e indicazioni pratiche per garantire un clima di conformità con la legge: si focalizzano sul creare un’atmosfera priva di “bias” (pregiudizi più o meno inconsci) e sul favorire condizioni che facilitino l’espressione del talento nella diversità.

Quello che serve riconoscere è che c’è un elemento tribale, molto profondo, nella natura umana, che ci porta naturalmente a dividerci in gruppi: noi vs loro. E quando incontriamo una persona nuova, il nostro cervello la classifica istantaneamente tra i “simili a noi” o tra i “diversi da noi”. E’ una tendenza innata, che si riflette in modo particolare quando il diverso da noi riguarda la razza o l’etnia. Alcuni studi dimostrano come l’amigdala si attivi di fronte a foto di persone con un colore della pelle diverso, o fattezze differenti da quelle dell’intervistato. E’ questa innata e primitiva attivazione dell’amigdala alla base del conformity bias e ancor di più del racial bias.
David Rock e Heidi Grant del  NeuroLeadershipInstitute ci fanno notare che molti programmi di DEI affrontano il tema del “ bias”, ma non lo possono eliminare. E rischiano di avere a volte un effetto controproducente: alle persone non piace sentirsi dire cosa devono pensare, e quando questo accade la reazione può essere quella tipica di fronte ad una minaccia: fight, flight, freeze. Tendiamo a rifiutare quello che ci viene imposto, specialmente se va contro convinzioni o valori più o meno profondi. Uno studio del 2016 su 830 diversity training obbligatori rivelò come spesso questi programmi producano un effetto autosabotante. “I trainer ci dicono che la gente reagisce ai corsi obbligatori con rabbia e resistenza”, scrivono i sociologi Frank Dobbin e Alexandra Kalev in un articolo sull’ Harvard Business Review, e molti partecipanti effettivamente riportano situazioni di tensione nei gruppi di lavoro. 
David Rock ci illustra un esperimento pubblicato nel 2011, che descrive gli effetti di un approccio “sanzionatorio” al concetto di Diversity & InclusionIl test si chiama “Effect of antiprejudice messages”.
A un gruppo fu sottoposta una lettura che enfatizzava la libertà di scelta individuale, e spiegava quanto l’apertura mentale sia una modalità più gioiosa di vita. Il testo conteneva frasi come “Quando lasci andare il pregiudizio, puoi sfruttare appieno la ricchezza di una società diversificata” oppure “Sei libero di scegliere di non avere pregiudizi” o ancora “Tu solo puoi decidere di essere una persona aperta, che cerca l’uguaglianza”.
Ad un altro gruppo fu sottoposta una lettura che ribadiva che la discriminazione è sbagliata e dunque proibita. Il testo conteneva frasi come “I datori di lavoro hanno l’obbligo di creare un ambiente di lavoro privo di pregiudizi” oppure “Dobbiamo tutti astenerci dagli stereotipi” e ancora “E’ qualcosa che la società richiede con forza”.
Prima e dopo la lettura del testo a entrambi i gruppi veniva proposto un test a scelta multipla, per evidenziare la propensione individuale al pregiudizio. Il risultato fu che i membri del primo gruppo rispondevano dimostrando meno pregiudizi rispetto a quelli del secondo. Ma la cosa più sorprendente fu che chi aveva letto il testo n° 2 dava risposte più ricche di pregiudizi dopo averlo letto, rispetto a quanto aveva fatto prima ! A fronte di un testo così sanzionatorio le persone si sentivano fortemente limitate nella loro autonomia e libertà di espressione, e questo le portava a dare risposte “razziste”, come difesa e “vendetta”. In altri termini, la gente ha bisogno di sapere che è libera di scegliere di essere “senza pregiudizi”, e non vuole sentirsi “obbligata”. 
Nel suo libro The Authoritarian Dynamic, la psicologa politica di Princeton Karen Stenner dimostra che le persone con personalità autoritarie tendono ad essere più razziste se poste di fronte ad un messaggio di inclusione. E anche coloro che non hanno una personalità autoritaria, reagiscono negativamente di fronte a messaggi che sottolineano l'obbligo ad accettare il  valore delle diversità culturali. Il tribalismo è parte della natura umana, e gli sforzi per far finta che non sia così vengono percepiti come minacce, come un attacco al proprio gruppo d’origine. Quando questo accade, l’ostilità si manifesta.Invece, quando le persone si percepiscono parte di uno stesso gruppo, i bias legati alla diversità, in particolare quella razziale, tendono a scomparire.
Dunque il modo per aumentare l’inclusione sul posto di lavoro è far sì che tutti si sentano parte dello stesso teamDiversi studi supportano questa idea, e uno dei modi più semplici è condividere obiettivi comuni. I programmi di inclusione posso prendere il via costruendo gruppi di persone che si conoscono, che lavorano insieme, che condividono interessi e obiettivi: affrontare il tema della DEI sarà più facile, e si darà vita a soluzioni più pratiche e concrete.
E la parola Equità è la più importante delle 3.Come sostengono gli studi del CCL Center for Creative Leadership, priorizzare l'equità permette di far leva su un valore condiviso da tutti, il senso di giustizia e di correttezza. E siccome è un valore umano e fondativo delle collettività, saranno proprio i leader a doverlo portare avanti e interpretare nella pratica, creando le condizioni per evitare i loro propri bias e per mitigare quelli che osservano nei loro team.

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