COME PERSEVERARE QUANDO SIAMO SUL PUNTO DI MOLLARE

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Quando adotti una nuova abitudine, c'è in genere un periodo di crescita iniziale, e poi le cose diventano più faticose: non ottieni più gli stessi miglioramenti altrettanto velocemente, e ti capita di sentirti bloccato e incapace di superare gli ostacoli, come dentro un buco.
Seth Godin ne parla nel suo libro The dip: the extraordinary benefits of knowing when to quit and when to stick.
Spesso, più resisti all'interno del "buco", più sei vicino al successo. Eppure molte persone che si trovano dentro al "buco" rinunciano ancora prima di sapere come fare ad uscirne.
In alcuni casi prendono una decisione corretta e si risparmiano tempo e fatica, che possono dedicare ad altro.
In altri casi buttano tutto il progresso che hanno accumulato.
Come decidere se mollare o insistere?Ci sono diverse domande che ti puoi fare, e Martin Meadows nel suo libro Grit ci aiuta a metterle a fuoco.
La prima domanda è: il tuo desiderio di continuare, quanto è legato al fatto che hai già investito così tanto?Se avere già investito molto tempo e molta energia è la tua principale o unica ragione, allora è molto probabile che sia meglio smettere.
Poi c'è una domanda più significativa, e fondante: per quale ragione stai facendo questo? Quanto è importante e significativo per te il risultato che produrrai? Quanto entusiasmo e gioia provi per il punto di arrivo?C'è una differenza tra lo scoraggiamento di breve, che succede a tutti, e la mancanza di verve legata alla perdita di visione e di senso.Se la tua Vision non alimenta più il fuoco in te, la decisione di smettere credo sia la migliore.
Se hai deciso di continuare, cosa può aiutarti a farlo?
  1. La routine, o regolarità sostenibile è la chiave della perseveranza
Nel 1911 due squadre di esploratori partirono per raggiungere il Polo Sud a piedi: una di loro era guidata da Roald Amundsen, l'altra da Robert Falcon Scott. Amundsen decise di seguire una semplice routine: percorrere una media di 12 miglia nautiche giornaliere. Era realistico, non era troppo stancante ma non era nemmeno troppo facile. Indipendentemente dal tempo atmosferico, ad eccezione di condizioni estreme, lui e il team viaggiarono per non più e non meno di 15-20 miglia nautiche al giorno. E il resto del tempo riposavano. Scott invece portò il suo team all'esaurimento: fino a quando il tempo fu buono non lasciò all'equipaggio modo di recuperare; quando il tempo divenne cattivo, rimase convinto che spingersi al limite fosse il solo modo possibile.Amundsen e la sua squadra raggiunsero il Polo Sud per primi e ritornarono un paio di mesi dopo per raccontarlo.
Scott e la sua squadra morirono sulla via del ritorno, lasciati senza forze da un viaggio troppo faticoso.
Senza dubbio entrambi gli uomini erano stati molto perseveranti, in una sfida per niente semplice, eppure Amundsen riuscì nell'impresa grazie ad una perseveranza strategica e alla forza del giusto riposo, non perché aveva spinto se stesso e il suo team oltre il limite.

Nello scrivere un libro, per esempio, molti scrittori si danno una routine molto semplice: scrivere 3000 parole al giorno. Fosse l'unica cosa che fanno nella giornata, la considerano una giornata produttiva se hanno scritto almeno 3000 parole. Non passano ore a chiedersi se hanno voglia di scrivere o no. Si mettono alla scrivania e scrivono 3000 parole, come parte di una routine giornaliera. E così diventa automatico, come lavarsi i denti. Non fanno mai eccezioni, non scrivono mai meno di 3000 parole, a meno che non siano arrivati alla fine del libro. Non scrivono mai più di 3000 parole, perché sanno che, se facessero così, cadrebbero velocemente in burn-out.
  1. La routine deve inserirsi naturalmente nelle tue abitudini attuali: più il comportamento è automatico, meno troverà resistenza.
Anche le azioni più piccole, se ripetute tutti i giorni, producono enormi risultati nel lungo termine: non serve fare 3 ore di corsa una volta alla settimana.
  1. La routine deve prevedere un upgrade o una variazione periodici
Secondo uno studio condotto dalla fisiologa e maratoneta Emma Ross, la fatica è tutta nella nostra testa. I suoi studi su runner esperti rivelano che non sono i muscoli che ci impediscono di correre a lungo: è il cervello che riduce la stimolazione elettrica ai muscoli, molto prima che gli stessi vadano effettivamente in fatica.Gli scienziati non hanno ancora definitivamente stabilito se questo meccanismo del cervello serva per prevenire danni o addirittura la morte.Però saperlo ci permette, nel momento in cui sentiamo la fatica, di spingerci solo un pochino oltre, allargando la zona di comfort. Spostiamo il limite ogni volta un pochino più in là. Non i muscoli, ma il cervello che ci permetteranno di fare altri quei 5 minuti di attività fisica in più. E questo ci darà gratificazione e forza.
Inoltre questo permetterà alla routine di non diventare noiosa, altra possibile causa di abbandono.
E' importante introdurre regolarmente delle variazioni.

  1. Dobbiamo riconoscere i nostri meccanismi autosabotanti, e gestirli
Lo "status quo bias" si accende per invitarti a tornare alla situazione precedente? Puoi contrastarlo chiedendo a te stesso se la situazione precedente ti è utile, se serve i tuoi obiettivi, se in questo momento la situazione precedente è preferibile.
Un altro bias autosabotante è l'eccesso di fiducia nella nostra capacità di autocontrollo: meglio dare per scontato che essa è debole, e non mettersi nelle condizioni di cadere in tentazione (ad esempio, non comprare alimenti ingrassanti, spegni le notifiche del telefono, spegni il wi fi)
Il dubbio si insinua in mezzo alla fatica?
E' necessario tenere alta l'autostima, essendo sempre consapevoli dei propri pensieri, delle proprie forze e risorse.
E' possibile mettere a fuoco le convinzioni limitanti e rimpicciolirle, depotenziarle, convertirle in nuove, potenzianti.Le convinzioni limitanti strisciano nel nostro cervello, lavorano dietro le quinte e ci portano a fare spesso scelte sbagliate.
Bisogna accorgersi di loro, vederle arrivare e sostituirle con qualcosa di più utile.


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